La storia della rivista

Non lo vedevo da tanto tempo. L’ultimo sguardo che ha fotografato il suo viso, che ne ha registrato l’immagine tra i ricordi, è stato lo sguardo di una ragazzina di dieci anni. Pallida, le braccia e le gambe emaciate, terrorizzata dalla sua cattiveria e dalla sua violenza. Adesso è steso in una bara. Vestito con giacca nera e camicia bianca, pare più un distinto intellettuale che un ubriacone. I convenuti al funerale rimangono in silenzio, mentre la campana a lutto ne annuncia la morte. L’odore dell’incenso si spande per la stanza. Un padre morto. Mio padre. Per anni, questa parola evocava in me nient’altro che il mio cognome. Il semplice fatto che devo essere stata generata durante l‘atto di accoppiamento di cui anche lui è stato partecipe. Osservo il suo volto sereno, impassibile. Sembra una lastra di ghiaccio, nuda e fredda, poggiata sulla finestra. Non ha mai avuto il viso così sereno. Se anche l’ha avuto, io non l’ho mai visto. Solo collera. E rabbia.
Non lo vedevo da molto tempo. Perché mi ha abbandonata. Rinnegata. Ripudiata, non appena i miei hanno divorziato. Pensandoci bene, se n’è fregato di me da ben prima di allora. Ancora prima che io nascessi. Non appena ebbe esploso il suo seme dentro mia madre e ne ebbe fecondato uno degli ovuli, non appena ebbe concluso l’orgasmo. Già allora mi aveva abbandonata. Ha deciso di fottersene di me. Già allora dovevo essere, per lui, uno strano, sgradevole peso di cui ci si doveva occupare, per il quale bisognava fare piano la notte. Un gattino frignante. Sarebbe stato meglio affogarlo. Non so perché mi abbia fatta. Sì, è vero, probabilmente non ci ha mai riflettuto su.
Non piange nessuno. Forse perché nessuno gli voleva bene. E quelli che anche gli hanno voluto bene non piangono per la vergogna di farlo per un mascalzone del genere. Neanch’io piango. A che pro? Rimango in piedi irrigidita e cerco di sciogliere questa sensazione d’indifferenza pensando al fatto che si tratta di mio padre. È tuo padre, perdio, mi dicevano gli altri quando ero bambina. Perché non vai a trovarlo? Ma come si fa ad andare da qualcuno che ti rinnega, ti cancella, per il quale sei solo aria, oh ma che dico, senz’aria morirebbe, senza di me invece se la passa proprio bene. Non ci riuscivo. Le due fotografie che custodivo nella mia mente erano strane. Una era l’immagine del volto ubriaco e rabbioso di mio padre. L’altra era quella della cara schiena di mio padre, curvo su uno stagno e intento ad acchiappare girini per me. Le zanzare lo punsero tutto, quella volta. Non riuscivo a decidere: a quale delle due fotografie dovevo credere, qual era quella vera? Qualche volta avevo la sensazione che mentissero entrambe. Fin da piccola ho odiato i ragazzi che uccidono le rane. Mi sembrava che uccidessero quell’immagine. Della sua schiena. Delle punture di zanzara.
Ora realizzo che questa è la prima volta in tutta la mia vita che posso realmente osservarlo. Nei dettagli. Mio padre, non il rosario. Lo guardo e cerco di capire perch�tutti i demoni che mi hanno fatto visita durante i miei sogni notturni avevano il suo volto. Eppure non ha per niente un誕ria spaventosa. È un cadavere qualunque. Un padre morto qualunque. Adesso non può più far del male a nessuno. N�picchiare nessuno. O urlare. Adesso può solo restarsene sdraiato in attesa che lo seppelliscano.
Il prete comincia la funzione. Parla di dio e di perdono. Chi perdonerà me, per non essere mai andata a trovarlo? Nemmeno quando aveva toccato il fondo, malato di grappa. Quando era quasi un barbone. Forse soltanto nella bara. Il Signore ci perdona solo quando siamo stesi in una bara.
È un bene che sia morto. Mi ha liberata. Dalla sensazione di avere un padre, da qualche parte. Dalla sensazione che dovrei andarlo a trovare. Anche lui si è liberato. Eravamo vincolati indissolubilmente l’uno all’altra. Da qualche parte nel suo inconscio doveva pure avere un pensiero per sua figlia. E anche se di lei se ne è fottuto, di proposito e consapevolmente, da qualche parte in fondo al suo cervello, nella parte più segreta della mente, doveva pur sentirla la pressione del dovere. Il dovere di andare a trovare sua figlia. Forse quando beveva fino a perdere i sensi cercava di cancellarla. Che stupidaggine. Il dovere non puoi affogarlo nell’alcol. Ti fa pressioni. Io ne so qualcosa. Ogni volta che sognavo di quei demoni, l’indomani trovavo il dovere ad aspettarmi accanto al letto. Mi diceva con tono severo: è tuo padre, perdio. Teneva il dito alzato. Avevo paura. Paura che alla fine avrei obbedito e sarei andata a suonare alla sua porta. Che mi avrebbe aperto. Il demone. Mio padre. Che avrebbe detto qualcosa. Qualcosa di malvagio. Qualcosa che mi avrebbe uccisa. Ne avevo così paura che non uscivo di casa. Tanto per essere certa di non incontrarlo.
Il prete ha quasi finito. Mi sforzo ancora di cogliere la forma delle sue labbra, sono quelle di un sassofonista. Sottili e adesso anche bianche. Hai la bocca come tuo padre. Cammini come tuo padre. Anche i capelli sono quelli di tuo padre. Io li ascoltavo. Odiavo tutto ciò che avevo di mio padre. Mi guardavo allo specchio e avevo voglia di cavarmi con un coltello quelle odiose labbra sottili di mio padre. Di strapparmi tutti i capelli e troncarmi le gambe. Mi detestavo per il fatto di somigliare a mio padre. E quando ci azzuffavamo, con mia sorella, la cosa più orribile e umiliante che potevamo fare l’una all’altra era pronunciare quella frase: sei come nostro padre. Così, sputata in faccia. Faceva male come uno schiaffo dato con uno straccio bagnato e fetido.
Ma ora non ha più importanza. Perché lui è morto. E un padre morto suona come una cosa più nobile. Non è come dire ubriacone, alcolista, manesco. Alla domanda: che mi dici di tuo padre? risponderò orgogliosa che è morto. Non farà più niente, non distruggerà nulla. Ma nemmeno aggiusterà niente. Lui non c‘è. Ci sono solo io. La sua copia. Il frutto di una pazzia. Il suo orgasmo dimenticato. Posso inventarmi che bravo padre era, come giocava con me, come suonava bene il clarinetto. Posso farne un padre diverso, quello dell’immagine delle rane.
Tirano su la bara, la stringono con delle funi che affondano dentro il legno fino a farlo gemere. La grossa buca nera inghiotte il suo corpo. È ora di farla finita. Di dire qualcosa. Qualcosa che preme come un dovere. Che non sono mai riuscita a dire, per vigliaccheria. Per rabbia e per paura. Cadono le foglie dagli alberi, al rallentatore, come pioggia in un film muto. Dire qualcosa. D疎ccordo. Come vuoi. Apro la bocca. Sono una cornacchia muta. Nell段stante in cui la bara sfrega contro il fondo della tomba, sento rimbombare nella mia mente, come un macigno che viene rimosso, qualcosa che mi sale dalla bocca. Ti perdono, bastardo. Ti perdono… padre.